Il racconto LA TREBBIA, incastonato nella ruralità della provincia agrigentina degli anni ’80

LA TREBBIA”

di

Calogero Mazza


Un racconto estratto dal libro “All’ombra del carrubo”, dove sono pubblicati dieci racconti con protagonista il piccolo Gianni, la sua famiglia e i suoi piccoli amici. Ambientato in un paese della provincia rurale siciliana inizio anni ottanta. Tutti i racconti, così come “La trebbia”, narrano di fatti avvenuti realmente, talvolta modificati volutamente dall’autore per adattarli al contesto narrativo. Il piccolo Gianni è l’autore, anche se non lo ha mai detto o scritto.

Le emozioni di Gianni, che sono il fulcro del racconto “La trebbia” ma anche di tutto il resto del libro, mettono alla luce un bambino vivace e molto curioso, che ha bisogno di confrontarsi, con mille domande, con gli adulti per capire il mondo che lo circonda, che appare ai suoi occhi così affascinante pur nella sua semplicità e nella sua povertà.


Bambini che giocano

Per la mamma e la nonna di Gianni le prime ore della mattinata erano state abbastanza impegnative. Sia lui che le sue due sorelle stavano dando enorme filo da torcere alle due donne. Bisticciavano per qualsiasi cosa. Soprattutto i due più piccoli. Gianni aveva già un cucuruni (bernoccolo) in testa dovuto ad una caduta dal terzo dei quattro scaluna (gradini) della porta sul cortile della casa dei nonni materni. Nonna Maria gli aveva messo una moneta da 100Lire proprio dove si era fatto male. Aveva tenuta legata la moneta con un fazzolettone per una buona mezz’ora. Evitando così che si formasse un’escrescenza molto più grande di quella che gli era alla fine rimasta dove aveva sbattuto. Subito dopo si era sbucciato un ginocchio sul muro. Sempre nel cortile. La sorella lo aveva preso in giro. Finendo afferrati per i capelli. Si presero due sonori ceffoni dalla mamma. Con le lacrime ancora sul volto avevano trovato modo di guadagnarsi ancora qualche manata dalla nonna. Le avevano rovesciato il tummino (tomolo) di frumento appena riempito per venderlo ad una signora. Con due manate sul sedere li aveva cacciati via dal granaio.

“Ma non abbiamo fatto niente!” protestò Gianni appena ripreso dalla madre.

“Non m’interessa! Adesso stai seduto qui sulla sedia e non ti muovi più! U capisti?” inveì la madre, ormai esasperata per il continuo correre dietro ai figli sin da quando erano arrivati a casa dei nonni. Qualche ora prima.

“Mah!”

“Niente ma! Sennò ritorniamo a casa!” minacciò gesticolando con l’indice della mano destra a poca distanza dai suoi occhi.

“Vabbeni!” piagnucolò Gianni.

Anche le altre due sorelle ebbero la loro dose di rimproveri. Certo. Ma non come lui. Non gli piaceva che lui ricevesse dei rimproveri più pesanti di quelli che avevano le sorelle. E di conseguenza dei castighi più duri. Una volta lo fece osservare al padre. Non servì a nulla cercare di far valere le sue ragioni. ‘Perché tu sei un maschio. I maschi devono comportarsi sempre bene!’ fu la risposta del padre. Non lo lasciò soddisfatto. Per niente. Lui era un maschio. E doveva essere rimproverato di più rispetto alle sorelle che erano delle femmine. Un ragionamento molto particolare. Forse maschilista. Oppure solo perché come risposta poteva apparire abbastanza diplomatica per non dirgli che era più discolo delle sorelle e che meritava essere punito maggiormente. In lontananza si sentì il rombo del motore di un trattore. Era anche su di giri. Ciò significava che stava trasportando un carico molto pesante. Non poteva essere altrimenti. Disobbedì agli ordini della madre. Si affacciò dalla porta. Quell’altra che dava sul lato della strada. Dall’angolo della strada vide comparire il trattore con a traino il carrellone pieno di sacchi. Una montagna di sacchi. Legati ed assicurati alle sponde di legno del carrello da diverse funi e corde. In cima ai sacchi c’era accovacciato suo padre. Il trattore lo guidava uno dei suoi zii materni. Vincenzo. Il più piccolo dei sette. Mentre sul suo lato destro era seduto un picciotto che poteva avere si e no una sedicina di anni. Meno di diciotto in ogni caso. Si chiamava Bilasi (Biagio).

“È arrivato papà! È arrivato papà!” urlò contento Gianni entrando in casa. Una manata stroncò il suo entusiasmo. Giusto dopo aver fatto solo un passo dalla porta dalla quale era rientrato. La mano era quella della madre. Ne riconosceva ormai tutte le linee del palmo. E quella mattina ne stava facendo un ottimo ripasso.

“Che cosa ti avevo detto?”

“Ma è papà!” borbottò lo stesso Gianni e superando quell’attimo di broncio per l’ennesimo ceffone preso in così poco tempo continuò “È sul trattore con lo zio Vincenzo!”

“Ehhh!” esclamò il padre entrando a braccia aperte e piegandosi sulle ginocchia per accogliere i propri figli in una stretta amorevole e paterna. Così come faceva ogni volta che ritornava a casa o dai campi o dalle vie paese. Tutti e tre corsero fra le sue braccia come se fossero ferro attratto della calamita.

“Papà. Papà. Lo sai che Gianni è caduto?” disse Sara, la più piccola dei tre. E continuando “Papà! Papà! Lo sai che Gianni ha fatto cadere il tummino alla nonna?” e ancora “Papà! Papà! Lo sai che Maria ha bevuto pure il latte di Gianni e lui non lo ha potuto bere stamattina?” senza fermarsi e prendendo fiato solo per un attimo “Papà! Papà! Gianni mi ha tirato i capelli!”

Dino disarmato guardò negli occhi della moglie. Lei allargò le braccia in segno di arresa. Si fecero un sorriso. Sapevano che i loro pargoli erano così vivaci e ci avevano fatto l’abitudine. Talvolta se ne disperavano. Ma per lo più erano delle risate uniche. Poiché l’allegria alla fine la faceva da padrona nella loro famiglia.

“Perché non ve lo portate con voi?” suggerì nonna Maria.

A Gianni brillarono subito gli occhi. Si attaccò alla canottiera del padre e iniziò a tirarla. “Posso? Posso venire? Posso venire?” “Devi chiederlo alla mamma”.

“Mamma posso?”

“Se vuole il papà?”

“Ma insomma!” protestò lui sentendosi preso in giro.

“Ha ragione. Che cosa vuol dire. O gli dite di sì o gli dite di no!” prendendone le difese lo zio Vincenzo proseguì “Dino stasera lo riporto a casa io se tu devi rimanere alla trebbia stanotte”.

Va bene. Ma si ti viu fari qualchi mingiata ti po scurdari pi sempri di veniri ‘n campagna! (Ma se ti vedo fare qualche minchiata puoi scordarti per sempre di venire in campagna!)” disse rivolgendosi a Gianni.

“Sì. Basta che vengo. Sì. Sì!” strillò Gianni ultra felice.

Dino, Bilasi e Vincenzo iniziarono a scaricare il trattore. Bilasi sul carrello preparava il sacco che si caricavano a spalla a turno sia Dino che Vincenzo. Dopo un brevissimo tragitto lo svuotavano nel granaio. Il sacco vuoto lo mettevano in parte uno sopra l’altro. Alla fine quando avrebbero terminato di scaricare li avrebbero sistemati sul carrello, pronti per essere riempiti ancora. Ogni sacco veniva riempito da quattro tummina di frumento. Tutto il frumento che avevano nel granaio era l’introito della trebbiatura. Qualche anno prima i fratelli della madre di Gianni avevano acquistato una trebbia. Una Artemio Bubba 110 con trincia e pesta-paglia, gran crivello e pressa incorporata. Una vera chicca nel campo delle macchine agricole. Il meglio. Di quelle che per la loro qualità venivano sempre preferite alle altre. Da quando avevano fatto quell’affare i loro introiti erano saliti tantissimo. Tanto che le cambiali che avevano fatto per pagare la loro Artemio Bubba le avevano saldate in anticipo. Da quel momento in famiglia era sorta una consuetudine in più. Giugno per tutti loro voleva dire trebbia. Tutte le loro attività si incentravano in funzione di quel macchinario. Si faceva una accurata manutenzione del mezzo. Dei trattori. Si preparava tutto l’occorrente per affrontare la campagna. Si partiva. Spostandosi per le varie contrade rurali. Molte volte spingendosi anche oltre i territori comunali ed anche provinciali. Tanto che era più comodo pernottare diverse sere direttamente nel posto della trebbia piuttosto che tornare a casa in paese. Difatti era abitudine tornare a casa solo ogni tre sere. Alcuni restavano anche una settimana intera. Ma era davvero proibitiva la condizione igienica nella quale versavano negli ultimi giorni della settimana. I timogneri (coloro che si occupavano di raccogliere in un punto di una contrada le timogne, che erano dei cumuli di fasci di grano mietuto) si accordavano preventivamente della trebbiatura con i proprietari delle trebbie. Cosicché seguendo l’iter degli accordi, finita la trebbiatura in un posto si passava immediatamente a quello successivo seguendo la scaletta programmata. Solitamente ogni contrada faceva ed aveva un posto di timogne. I vari coltivatori portavano il loro raccolto nel posto delle timogne prossimo al loro terreno. In attesa che arrivasse la trebbia. Il posto era sempre vigilato da uno o più timogneri. Abitualmente il custode (timognere) era il proprietario del terreno dove veniva fatto il posto delle timogne dei vari contadini. Ovviamente ogni contadino aveva la sua timogna. Costituita dalle gregne ovvero i fasci di grano mietuto. Solo in quell’ultimo decennio si era passati alla trebbiatura. Prima c’era la pisata. Tutto un altro tipo di lavoro. Coi cavalli. Davvero molto caratteristico. Ma notevolmente più complicato e pesante. Per fortuna che i tempi erano cambiati e la meccanizzazione agricola stava prendendo il sopravvento. Soppiantando delle tecniche arcaiche. Ma riducendo di tanto la fatica dei poveri contadini. La trebbia dei fratelli Deanti si trovava nei terreni del Castello.

Panorama

Una buona mezz’ora di viaggio col trattore. Ma per Gianni sarebbero stati sufficienti già cinque minuti. La sua felicità poteva essere attivata già con così poco. Era stato affascinato da sempre dal trattore. Poterci salire dunque valeva elevarlo ai ranghi di un dio. Giusto quello si sentì d’essere lassù. Quando finirono di mangiare dalla nonna fu il primo ad avvicinarsi al trattore. Suo padre lo aiutò a mettersi bene sul sedile laterale accanto al posto di guida. Allorché fu sicuro che Gianni fosse ben sistemato il padre saltò sul cassone. Da lì lo tenne d’occhio ancora. Ma era tutto a posto. Si poteva partire. Lo zio Vincenzo accese il motore. Con la mano diede una scompigliata ai capelli del nipote. Premette il pedale dell’acceleratore. Partirono. Con la partenza del trattore prese velocità anche l’ebbrezza di Gianni. Anche la sorella Sara voleva andare con loro. Ma era troppo. Già bastava un mocciosetto. Oltretutto i due insieme voleva dire solo una cosa. Guai. E di quelli già ne avevano combinati parecchi per quel giorno. La nonna aveva proposto di dividerli per quel motivo. Ne sarebbe valsa la serenità di tutti. Le sue lacrime non furono compassionevoli. Nessuno le considerò. Non le rimase che salutare il trattore che andava via senza di lei e con suo fratello. Uno smacco non da poco. Pensandoci Gianni se la rise. Ecco un vantaggio dell’essere maschi. Questo gli balenò nella testa. Non aveva torto. Se Sara fosse stata un maschio anziché una femmina molto probabilmente sarebbe stata lì sopra anche lei. Gli piacque il suo pensiero. I suoi capelli al vento sembravano confermare il suo compiacimento. Svolazzavano liberi. Agitandosi come delle braccia. Al ritmo di una bella musica. Come se fossero contenti anche loro finalmente di salire sul trattore per andare in campagna. Alla trebbia. Alcuni cani uscirono da un cortile. Abbaiando e rincorrendo il mezzo. Si fecero un centinaio di metri. Infine ansimando e con la lingua a penzoloni si fermarono. Desistettero dal loro proposito e mestamente tornarono verso il punto da dove erano sbucati. Con la coda fra le gambe. Gianni li osservò divertito fino a quando non li perse di vista. Rigirò la testa davanti e iniziò a godersi la vista che si presentava. L’orario era di quelli che in giro si vedono solamente i cani. Anzi a volte nemmeno quelli. Proprio come quel detto. Lo aveva sentito dire qualche volta a suo padre. Si voltò verso di lui. Dietro. Nel cassone. Era lì. Gli sorrise.

“Tieniti sempre forte!” gli disse urlando per farsi sentire.

“Sì! Papà!” rispose con foga mimando la presa forte delle sue braccia alle maniglie della seggiola dove era seduto.

“Bravo!” gli disse con un grandissimo sorriso stampato in volto aggiungendo poi “Ti stai divertendo?”

“Sì! È troppo bello quassù!”

“Dai ora girati e guarda davanti”.

“Vabbene!”

Intanto con una velocità piuttosto sostenuta erano già giunti al ponte di Ficamara. Nuovo. Coi pilastri di cemento armato. Scorreva parallelamente a quello più vecchio. Che era più stretto ma anche più caratteristico coi suoi archi in pietra. Dopo una salita in curva si presentò a loro un lungo rettilineo. Dove in fondo lungo un’altra curva si intravedeva una casina gialla. Bella. In mezzo al verde coltivato e le frasche degli alberi. Dei mori si rampicavano per tutta la sua recinzione. A Gianni piacque tantissimo.

“Che bella! Di chi è?” chiese allo zio.

“È del padre arciprete!”

“E i figli come si chiamano?” chiese ingenuamente.

“Non ha figli! A meno che non si sappia!” sbottò a ridere suo zio Vincenzo capendo che il nipote non aveva ben noto cosa fosse un padre arciprete.

“Non è sposato?” incalzò Gianni.

“No. È un parrinu (parroco). Non può sposarsi e non può avere figli” fiatò al nipote sperando che avesse compreso finalmente.

Ah! U capivu! (Ah! Ho capito!)” fece Gianni. Imboccarono il bivio per Capreria. Una piccola salita li fece rallentare. A sinistra si vedevano sempre più case fra le terre. Alcune anche molto belle. Coi tetti a spiovere e le tegole. Un lusso. Visto che quasi tutte le case del suo quartiere, ma anche di tutti quelli di nuova generazione, avevano solo dei solai a mo’ di terrazzi. Spesso con le ingabbiature di ferro dei pilastri lasciati a metà. Simili a degli spuntoni. Già belli e buoni per essere utilizzati per la costruzione di un ulteriore piano. Con dei parapetti in muratura che il più delle volte non superavano il metro e mezzo a delimitare il perimetro del tetto della casa. E particolare comune di tutte ma proprio tutte le case non avevano nessuna tinta. Solo il grigio del cemento. Queste invece erano definite. Colorate. Chi gialle. Chi rosse. Altre bianche. Una marrone. E una verde e arancio. Quella era del sindaco. Quello che ormai governava il paese da più di quindici anni. Una istituzione. Lo zio dal cuore infervorato dal comunismo storse il naso. Proprio mentre passavano davanti alla casa di mare del sindaco. Che come la prassi del comune voleva era democristiano. Difatti dal dopo guerra in poi la giunta comunale e il suo sindaco erano stati sempre di quella corrente politica. Ai comunisti come lui non rimaneva che una sola cosa. L’opposizione. Ma non serviva a niente. Tanto la maggioranza era bella che fatta! Aveva parlato proprio di questo la sera del sabato prima alla Camera del Lavoro. Il sindacato del proletariato di stampo comunista. Il segretario era un suo parente. Era anche consigliere comunale. Discutevano ogni volta su quelle che secondo loro erano le decisioni da prendere. Il tipo di opposizione da fare. Alle prossime elezioni Vincenzo si sarebbe candidato col partito. Sognava di sconfiggere per la prima volta quella nomenclatura. Il cui simbolo era senza ombra di dubbio il sindaco e quella sua villa sul mare. Storse ancora il naso. Dopo averla superata. Anatemizzando nella mente. Lontano nell’orizzonte su un promontorio ben alto e visibile apparve il Castello Chiaramontano. Bellissimo. Imponente. Una costruzione trecentesca di inconfutabile foggia chiaramontana. Una casata siciliana fra le più potenti di quell’epoca. Tramandato come dote da diverse famiglie nobili era arrivato alla famiglia Tomasi di Lampedusa intorno al 1700 attraverso una eredità per linea femminile. Quella stessa famiglia tanto rinomata nel paese. Alla quale si deve soprattutto la sua fondazione e la costruzione dei principali monumenti. Il Palazzo Ducale. Il Cravanio (Calvario), il Monastero, la Matrice (Chiesa Madre) e qualche altra costruzione che si era persa nel tempo e non ne rimaneva alcuna traccia se non nei ricordi di qualche vecchietto. Come quella di un castello all’interno del perimetro cittadino. O di una bellissima fontana in stile barocco al centro dello slargo davanti al Monastero delle Benedettine. Qualche decennio dopo finalmente Gianni avrebbe conosciuto tutta la storia del Castello che si trovava davanti ai suoi occhi. Studiandola sui banchi di scuola e ricevendo un libro in regalo da uno dei cugini paterni.

Distesa di grano

Erano le prime volte che Gianni lo vedeva. Ne rimaneva sempre affascinato. In silenzio. Muto lo mirava. Chiedendosi tante cose. Ma restando silenzioso. Forse per paura di perdersi cotanta bellezza. Presto il suo essere assorto fu turbato da un’altra vista. La trebbia. Era lì. Sulla scoscesa che arrivava fin sul mare. Più o meno. Solo una decina di metri di sbalanzo (burrone) ne impediva il contatto diretto col mare. Dove si apriva una stupenda ansa. Proprio sotto il castello. Che sembrava ne vigilasse qualsiasi movimento. Da secoli.

“La trebbia!” urlò Gianni. Eccitatissimo.

“Siamo quasi arrivati. Tieniti forte che adesso entriamo nella campagna!” esclamò zio Vincenzo.

“Sì!”

Qualche sobbalzo fece vibrare il possente chassis del trattore. Ma niente di preoccupante. Si fermarono a pochi metri dalla trebbia. Era maestosa. Rossa. Con tutte quelle pulegge in movimento. Tutto in azione. Coi picciotti sudati e a torso nudo coi forconi che riempivano il nastro di carico della trebbia.

La trebbia

Tutto veniva ingoiato dall’enorme bocca lassù. Facendo il percorso fra le viscere di quel portentoso macchinario. Dietro altri uomini si davano da fare a raccogliere col tummino il grano che fuoriusciva dal bocchettone riversandosi nella vasca metallica. Riempendo dei sacchi di iuta. Ordinariamente colmati con quattro tummina e caricati o su dei carretti oppure sistemati in parte in attesa di essere portati via dai relativi padroni. Sul lato delle varie leve dei comandi operava lo zio Sandro. Il più grande dei fratelli. Colui che poi era il più pratico. Il capo. Man mano che si passava da una trebbiatura all’altra tra i diversi contadini si procedeva al calcolo della percentuale che doveva essere trattenuta per il lavoro di trebbiatura. Di ciò si occupava il nonno. Difatti era lì con due signori. Stava patteggiando. Lo vide. Gli fece cenno di raggiungerlo.

“Nonno!” esclamò attaccandosi al suo collo e baciandogli la guancia irsuta.

“Oh! Oh! Bello! Finalmente qualcuno ti ha portato fin qui!” disse al nipote maschio più grande fra tutti quelli che i suoi figli gli avevano regalato fino ad allora.

“Sì. Sono venuto con il papà e zio Vincenzo. Col trattore!” rispose ancora vibrante per l’emozione. Lo poggiò a terra dopo che Gianni era rimasto saldato a lui con la pura intenzione di rimanergli incollato per più tempo possibile.

“Vai sotto l’albero d’ulivo laggiù. Quando finisco di parlare con questi signori ti raggiungo e ci facciamo una camminata verso il castello”.

“Sì. Che bello!”

Andò di corsa a sedersi sotto le ramaglie fitte del mastodontico ulivo. Secolare. Così come sembrava essere tutto quanto in quel posto. Tutto sapeva di antico. Storico. La vallata gialla emanava sentori di un passato importante.

Campo di grano

La presenza del chiaramontano castello ne doveva aver fatto passare di eventi rilevanti. Tanti personaggi avevano calpestato quelle zolle. Magari per scendere verso il mare. Dove una barca li avrebbe condotti sulla nave ancorata più in là nel mare antistante. Oltre l’ansa. Oppure per cavalcare il proprio cavallo e raggiungere le mura cittadine. O ancora per cacciare la lepre o i conigli così tanto abbondanti nel circondario. O forse per duellare contro i nemici. Quel che si percepiva era quello. Tutto poteva essere stato possibile. Sotto il fresco del possente ulivo Gianni recepiva a malappena l’essenza di quelle percezioni di celebri passati. Non di più. La sua età preadolescente e la quasi totale ignoranza di tutte le storie ne limitavano qualsiasi attecchimento culturale. E come poteva essere altrimenti. Non gliene aveva mai parlato nessuno. Era lì già da diversi minuti. Il nonno tardava ad arrivare. Era ancora accanto alla trebbia a parlare. Non più coi signori di prima. Ma con altri due uomini. Suo padre invece aveva preso a lavorare. Lo intravedeva dentro alla vasca di raccolta. Faceva il misuratore. Ovvero colui che era incaricato a misurare il frumento. La quantità di frumento da insaccare. Cioè tummina da colmare. E sacchi da riempire. Tutti da contare e da segnare. Veniva assistito da un altro. Di solito infatti si faceva in coppia. Non in quel frangente. Il suo assistente stava approfittando di una piccola pausa per mangiare un boccone e bere un bicchiere di vino. Lui, Dino, sapeva il fatto suo. Poteva farlo anche da solo. Anzi tante volte senza qualcuno fra i piedi che gli teneva i conti riusciva a lavorare meglio. Vide il figliolo seduto solo all’ombra. Gli fece un gesto di saluto con la mano. Gianni lo ricambiò subito. Dino proseguì a fare il suo lavoro. Dopo un po’ si presentò da lui. Aveva finito di misurare la partita di grano che era stata trebbiata. Doveva aspettare qualche minuto prima che arrivasse quella successiva. Tanto che poi ancora i contadini non si erano nemmeno presentati. Decise di fare una piccola pausa. Prese per la mano Gianni. Conducendolo con se.

Mietitori

“Andiamo. Ti porto al censu (gelso). Quaggiù. Dietro la mannara (ovile) ce n’è uno grandissimo carico zeppo di censi. Ti piacciono?” chiese al figlio che annuì senza fiatare. Lì davanti a pochi passi da padre e figlio alcuni dei ragazzi che caricavano il nastro della trebbia a forcate stavano riposando appoggiati con le spalle a delle gregne. Uno di loro era il figlio di un carissimo amico di Dino. Lo chiamò.

Cicì! Cicì! Francu! Ci vo veniri? Stammu iennu o censu! (Ciccino! Ciccino! Franco! Vuoi venire con noi? Stiamo andando al gelso!)”

Sto vinennu! (Vengo!)” rispose Franco alzandosi di scatto e correndo dietro di loro. Li raggiunse dopo pochissimi istanti.

Insieme arrivarono al gelso. Subito il padre iniziò a raccogliere qualche gelso. Che passava a Gianni. Presto anche Gianni ne raccolse qualcuno da se. Ma era troppo piccolo. Arrivava a malappena alle fronde più basse. Che ormai non avevano nessun frutto maturo. Franco e Dino si arrampicarono sui rami e glieli lanciavano verso il basso. Da lassù Dino si accorse che la trebbia aveva ripreso il suo lavoro. Doveva andare. Si raccomandò con Franco. Doveva prendersi cura del figlio. Cosa che fece con molta attenzione. Non lo perse mai di vista fino a quando tornarono indietro. Il nonno sbiancò quando vide il nipote col viso e le mani fino a metà braccia insaguliati (insanguinati). Si rese conto dopo aver aguzzato bene la vista che era solamente sporco del rosso dei gelsi. Tirò un gran sospiro di sollievo. Anche qualche bestemmia. Facendo sorridere chi gli era vicino.

“Vieni che ti porto a lavarti. Ma non lo hai fatto pulire?” chiese infine rivolgendosi a Franco.

“No. Mi sono scordato”.

“Lascia stare. Ci penso io!” gli disse notando che Franco stava per ritornare indietro per far pulire le mani e il viso a Gianni. Prese il bummulu di acqua e afferrando la mano rossa e appiccicosa del nipote si diressero ancora verso l’albero dei gelsi.

Il nonno raccolse due gelsi acerbi li fece sfregare fra le mani di Gianni e poi gli versò dell’acqua. Magicamente quella tinta rossa si sciolse. Le mani ripresero il loro colore naturale. Così come le braccia e il viso. Dopo averli sfregati bene con altri gelsi acerbi. Il nonno gli spiegò che la frutta acerba è sempre un ottimo sapone per togliere le macchie dei frutti maturi. Gianni trovò per terra un pacchetto di sigarette. Era caduto a Franco. Mentre era sull’albero. Lo teneva nel taschino della camicia. Quando ritornarono alla trebbia si avvicinò al padre. Gli disse che voleva fargli vedere una cosa.

“Sono di Franco?”

“Penso di sì”.

“Allora ridargliele!”

“Ma le ho trovate io!”

“Cosa vuol dire?”

“Che sono mie ora!”

“Non è così. E lo sai”.

“Ma papà!”

“Devi ridargliele”.

“Uffa!”

“Guarda dov’è Franco. Chiamalo e dagli il suo pacchetto di sigarette! Che tu non puoi fumare ancora! Sei troppo piccolo!”

“Sono sempre troppo piccolo. Per qualsiasi cosa! Sempre! Non vedo l’ora di diventare grande. Così non lo dirò a quelli che saranno troppo piccoli così come sono io adesso. Minchia!” protestò Gianni avviandosi verso Franco e attirando la sua attenzione agitando il pacchetto di sigarette con la mano lo chiamò “Franco! Ho trovato le sigarette! Sono le tue?” sperò che gli dicesse di no. Ma non fu così.

“Grazie! Era già da un po’ che le cercavo!” disse tirandone una fuori e portandola alla bocca. L’accese. Ne tirò una gran boccata. Facendo uscire fuori una fumata enorme. Quasi in pieno volto di Gianni. L’odore del fumo lo nauseò parecchio.

“Me lo ha detto mio padre che erano le tue. Io non lo sapevo”.

“Grazie ancora”.

“Prego”.

La trebbia 2

Ormai il cassone del trattore era pieno. Ciò significava una sola cosa. Gianni ritornava a casa. Anche perché l’ora ormai era giunta. Erano le sette di sera. Gianni abbracciò il padre. Lo baciò. Anche gli zii. Il nonno. Salì sul trattore. Nello stesso posto di prima. Si sistemò bene. La trebbia stava ancora trebbiando. Si sarebbe fermata dopo qualche ora ancora. Al calare del buio. Lanciò ancora un occhio verso il padre. Si salutarono. A bracciate. Poi Vincenzo mise in moto e partenza via. Il ritorno fu il rivedere il paesaggio in senso inverso. Prima il castello. Poi la strada per Capreria. La casa del sindaco. Quella dell’arciprete. Le vigne. Gli uliveti. I mandorleti. I campi di ristuccia (stoppie). Il giallo troneggiante sui campi ormai trebbiati. Gli orti. Le prime case del paese. Via Crispi. La casa dei nonni materni. La mamma e le sorelle. Ebbe il tempo solamente di arrivare a casa e mettersi sul letto. Sprofondò nel sonno. Stanchissimo. Felicissimo. Speranzoso. Chissà se qualche altro giorno l’avrebbero portato alla trebbia.

Bambino alla fontana

Prima di addormentarsi con gli occhi chiusi Gianni ripassò la meravigliosa giornata appena trascorsa. Si soffermò sul pacchetto di sigarette di Franco. Aveva avuto ben ragione suo padre a convincerlo di restituirgliele. Per diversi motivi. Lui era troppo piccolo per fumare. Franco sarebbe rimasto senza le sue sigarette per qualche giorno. Franco era un bravo ragazzo. Lui non lo sarebbe stato. Dormiva già. Quando gli si stampò un sorrisino sulle labbra. Come un fiore che sboccia dal suo bocciolo. Sognò ancora della trebbia. La trebbia. Voleva tanto essere più grande solo per essere lì. A lavorare nella trebbia. Nei sogni lo fece.

A mia madre, recentemente volata in cielo…

Calogero Mazza

Tutte le immagini sono riproduzioni grafiche di proprietà riservata Calm@©.

Classificazione: 5 su 5.
Il libro è disponibile su Amazon

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